La Giornata della Memoria
Anch’io sono stato ad Auschwitz qualche anno fa… Non so, però, se sarò in grado di mettere sulla carta i sentimenti che quel posto ha impresso nella mia memoria, nella mia anima. C’era stata tanta neve quell’anno. Tanta, che aveva coperto – pietosamente – le numerose fosse comuni presenti. E quelle povere vittime, ci dice la guida, erano state fortunate, perché non avevano subito le violenze, le umiliazioni, l’annullamento della dignità umana a cui erano stati sottoposti gli altri. Da pochi giorni era tornata al suo posto la scritta in ferro (era stata rubata) che sovrasta il portone di ingresso del campo di concentramento Arbeit macht frei ( il lavoro rende liberi) è scritto.
Il gruppo era di circa cinquecento studenti simpaticamente rumorosi. Ma, di fronte a quell’ingresso, è piombato un rispettoso silenzio, spontaneo. Abbiamo percepito subito che quel posto imponeva deferenza perché conteneva la dimostrazione di una violenza inaudita, umanamente inimmaginabile, la documentazione di una strage. Procedevamo lentamente. Come se volessimo evitare di trovarci di fronte alla dimostrazione che quel che di raccapricciante avevamo letto sui libri sul genocidio degli ebrei messo in atto dalle SS fosse tutto vero. A disturbare il lento andare ovattato e severo era lo scricchiolio provocato dall’impatto delle scarpe con la neve e le parole della guida. Non perdevamo una parola, un solo passaggio.
Eravamo di fronte alla più grande tragedia umana della storia. Increduli seguivamo in silenzio attraversando i grandi stanzoni. Occhi sbarrati di fronte a quella teca piena di occhialini, una montagna. Occhi sbarrati di fronte a quella montagna di scarpe di qualsiasi numero. Dalle scarpine per neonati a scarponi usurati. Occhi sbarrati di fronte a quei forni. Occhi sbarrati, di fronte a quel barattolo di latta vuoto in mezzo ad una stanza. Aveva contenuto una sostanza al cui contatto con l’acqua sprigionava un gas che faceva una carneficina. I poliziotti tedeschi conducevano gli ebrei nella stanza a centinaia per fare la doccia, bambini compresi, non sarebbero più tornati. E quei tappeti in quella enorme teca? Che ci fanno quei capelli? La spiegazione è stata allucinante. Si, quei tappeti erano tessuti con i capelli tagliati alle donne ebree.
E, poi, migliaia di foto. “Molti prigionieri, soprattutto donne”, comunica la guida, “si gettavano sul filo di ferro attraversato dall’alta tensione per farla finita”. Poi, quel binari, e quella porta in fondo dalla quale si entrava, difficilmente se ne usciva. Siamo rimasti in silenzio. Per sempre, quel giorno.
La Redazione di Corte Grande On Line si associa al ricordo di quei morti innocenti.