Grand Budapest Hotel
Nell’ottavo appuntamento del “Cineforum 2017/18” del Trinchese, è stato proposto il film del regista Wes Anderson, Grand Budapest hotel, una commedia, che, apparentemente, può apparire meno ricca di tematiche, rispetto alle pellicole precedenti. E’ una storia calata nel periodo tra le due Guerre, mentre il continente è in radicale trasformazione. La costruzione della trama è a scatole cinesi: Grand Budapest Hotel è un film nel quale uno scrittore racconta di come il suo romanzo sia nato dal racconto verbale di uno dei protagonisti delle vicende, Zero Moustafa, giovane assunto come “lobby boy” (facchino), dal leggendario concierge di un lussuoso e famoso albergo europeo Monsieur Gustave H. custode dei racconti. Sullo sfondo il furto e il recupero di un celebre dipinto rinascimentale, la violenta battaglia per impadronirsi di un’enorme fortuna di famiglia ed una dolce storia d’amore.
Grand Budapest Hotel si presenta come un’opera innovativa e curata sotto ogni punto di vista, dotata di un ricchissimo cast di attori e dove si sente molto la componente della regia. Tutto l’intero film può essere visto come un enorme quadro colorato ed eccentrico, come i personaggi . A fare da base a tutta la costruzione ci sono l’enorme attenzione per l’inquadratura, inoltre non vi è una scena in cui i dettagli non siano curati, in cui i colori non siano in sintonia con i personaggi o con l’ambientazione. Ciò che rende l’opera tanto ironica quanto surreale è l’originale tecnica del regista, basata su un gioco di contrasto fra il linguaggio grottesco e a volte rude e le trovate proprie del cinema muto (inseguimenti e lanci nel vuoto).
Sullo sfondo, colpisce e appassiona l’amore tra Zero e Agatha, una giovane pasticcera con una voglia a forma di Messico sulla guancia: un amore semplice che sopravviverà nonostante guerre e ostacoli di ogni tipo. Toccante il fatto che Zeno, nonostante l’albergo sia stato confiscato ai tempi del Comunismo, voglia a tutti i costi tenerlo solo in ricordo dell’amata (morta di malattia dopo due anni di matrimonio).
Sicuramente, infine, non lascia indifferenti una frase del film, pronunciata da Monsieur Gustave, in un dialogo con Zero: “In nome di Dio, che cosa ti ha indotto a lasciare la terra natìa cui appartieni e percorrere indicibili distanze per diventare un immigrato squattrinato in una società raffinata e colta che, francamente, avrebbe potuto fare a meno di te?” “La guerra”, è la risposta data dal ragazzo, una disarmante verità che con semplicità fa riflettere lo spettatore su un tema attuale, come quello dell’immigrazione.
A tale proposito, è interessante il rapporto che si viene a creare tra Gustave e Zero, laddove il primo, nonostante l’apparente cinismo, finisce per essere una figura protettiva, una guida che accompagna il ragazzo nell’intrigato percorso della sua esistenza.
Indubbiamente, si tratta di un film complesso da interpretare, ma dal dibattito e dal confronto, si è giunti ad una lettura condivisa da un po’ tutti i ragazzi, e cioè che quell’hotel elegante e raffinato, in cui si svolge gran parte della vicenda, vuole rappresentare un ultimo simbolico luogo in cui l’ordine e la civiltà resistono ancora un po’, prima di estinguersi e crollare sotto l’avvento di un regime dittatoriale e la tempesta della guerra imminente.
Alice Russo