Domande e (poche) risposte d’un estate
Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sui rapporti “Stato – Mafia” degli anni 90.
Quello a cui abbiamo assistito in questa torrida estate secondo il termometro politico, è un continuo scontro, un continuo fronteggiarsi di poteri dello Stato dovuto a storture del principio cardine di divisione dei poteri (Robespierre docet!). Ognuno in ciò rivendica il proprio ruolo e le proprie prerogative: il Presidente del Consiglio, quello della Repubblica e, persino, un ex ministro che, essendo per l’appunto ex, di prerogative costituzionali sul proprio status personale non ne avrebbe più.
Uno scontro durissimo nato dalle inchieste della Procura di Palermo volte a far luce sulle stragi del ’92 e sugli attentati che dopo ne seguirono in quella trattativa tra Stato e mafia che ormai è diventata verità storica. I magistrati in queste inchieste si sono imbattuti in un sottobosco di rapporti e contatti poco chiari tra pezzi non troppo deviati dello Stato, e pezzi, molto più furbi, della criminalità organizzata.
In questa vicenda, però, ci sono stati diversi piani che, a prima vista, appaiono evidenti anche a chi non è propriamente un “addetto ai lavori”. La vicenda Mancino ad esempio. Un ex ministro che telefona al Quirinale, come se stesse telefonando a casa della suocera, con una certa continuità chiedendo sempre la stessa cosa: protezione e tutela per sé stesso. Protezione da cosa? Da chi? L’ex ministro ed ex vice presidente del CSM chiedeva protezione rispetto agli interrogatori a cui era stato sottoposto nei giorni precedenti. Ma perché uno dovrebbe chiedere protezione rispetto ad un interrogatorio? Basta rispondere alle domande, non è difficile. E ancora: non appare quanto mai surreale che per chiedere quello che lo stesso Mancino ha definito “coordinamento delle indagini tra procure diverse” si alzi la cornetta e si chiami il Consigliere giuridico del Quirinale? Non vogliamo mica credere che il Quirinale assomigli ad un call center, che il suo numero si trovi sulle pagine gialle?!
Ad aggravare, solo dal punto di vista politico poiché quello giudiziario avrà ancora tempo davanti, la scelta del Presidente della Repubblica di sollevare conflitto d’attribuzione di fronte alla Corte Costituzionale sulle intercettazioni che lo riguardavano in prima persona proprio su questa vicenda. Infatti nell’intercettare l’utenza di Mancino (non più parlamentare, quindi intercettabile come qualunque cittadino) i magistrati si sono imbattuti nella voce del Presidente, ritenendo però ininfluenti quelle conversazioni e chiedendone lo stralcio. Se però penalmente tali conversazioni sono ininfluenti, potrebbero invece non esserlo politicamente. Cosa ha detto Napolitano a Mancino? Quanto conta il suo intervento con la lettera che giorni dopo ha inviato alle procure coinvolte nell’indagine? A queste domande certo, un normale cittadino avrebbe diritto a sentirsi dare delle risposte, ed anche piuttosto convincenti, visto che di mezzo ci sono la più alta carica dello Stato, l’ex vice presidente dell’organo di autogoverno della magistratura e una stagione che ha insanguinato l’Italia.
Invece su cosa si concentrano le attenzioni? Su cosa si solleva l’opinione pubblica? Sulle parole che un magistrato palermitano, tra i più autorevoli e preziosi per la sua preparazione nella lotta alla criminalità organizzata, pronuncia il giorno della commemorazione della strage di Via D’amelio, dicendo che ancora oggi quei delitti restano impuniti e che, da magistrato, si sente un po’ a disagio quando personaggi politici di primo spessore coinvolti in queste inchieste, con posizioni ancora tutte da chiarire, siedono ai primi banchi di queste commemorazioni, presenziando pomposamente e riempiendosi la bocca di antimafia e memoria.
Immediata la levata di scudi contro le parole del pm Scarpinato. Accusato di far politica (odiosa accusa visto che qualsiasi idea che si sostiene con forza implica far politica!) , di aver invaso il campo, di aver perso una buona occasione per tacere. Ma non finisce qui, dopo aver preso di mira la persona, ora tocca al suo operato.
Ecco che tornano di moda le intercettazioni. Ciclicamente messe in campo dalla destra come uno spauracchio contro la nostra privacy, riemergono cogliendo al balzo l’occasione di sentire incisa nei nastri la voce di Napolitano. “Ecco! Nemmeno il Presidente della Repubblica è al sicuro!” dicono da destra. Peccato che in questa occasione, come abbiamo avuto modo di dire in precedenza, ad essere intercettato non sia il Presidente, ma il cittadino Mancino; intercettazioni perfettamente corrette come sostenuto, tra gli altri, da Zagrebelsky su Repubblica in questi giorni. Strano è che, a cavalcare quest’onda di avversione verso i magistrati palermitani, si trovi anche il giornale di Scalfari, il quale, in prima persona s’è esposto ad un intervento politicamente infelice e giuridicamente scorretto a proposito delle intercettazioni incriminate. Perché questo comportamento? Perché questa difesa a spada tratta della posizione del Capo dello Stato? In fondo ciò che si chiede è solo la trasparenza, visto che giudiziariamente non c’è nulla che rilevi, allora, se non c’è nulla da nascondere, che si rendano pubbliche queste intercettazioni e si faccia luce sui colloqui, respingendo al mittente le accuse a Napolitano. Ma il conflitto d’attribuzione non va proprio in questa direzione, anzi inasprisce lo scontro, facendo rimanere fuori ciò che più conta per i cittadini: la verità.
Quella verità che ancora si sta cercando e che si spera di trovare al più presto, per far luce sulla pagina più buia della nostra storia repubblicana. Finchè non si chiariranno tutte le posizioni, compresa quella del Presidente, non potremo dirci di vivere in una società pienamente trasparente. Questo è ciò che, tra le altre cose, è accaduto in quest’estate politicamente (e non solo!) rovente. Non resta che sperare in un fresco autunno ricco di risposte sincere, che non nasconda tutto sotto l’apparente panacea dello stop alle intercettazioni quando, invece, basterebbe semplicemente, rispondere a questi interrogativi. Ho sempre creduto, infatti, che il problema non stia in chi pone delle domande, ma in chi non dà le risposte.
Dario Cannazza