La fionda senza pietra
Ecco il primo editoriale della rubrica letteraria di CorteGrandeonline.it “Perturbazioni”.
Il 12 dicembre del 1975, nel discorso per la consegna del premio Nobel, Eugenio Montale si chiese se fosse ancora possibile la poesia in un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria . Poi ricordò di essere stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale, di essere stato perfino disoccupato “per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non poteva amare”, ma che si ritrovava lì, in quella Accademia, per quel premio che rappresentava il riconoscimento che il mondo gli tributava, semplicemente perché aveva scritto poesie, “un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo”.
Se la poesia serva a qualcosa ed eventualmente a che cosa, è una domanda a cui probabilmente i poeti veri hanno rinunciato. Ormai se lo chiedono solo quelli falsi, i teorici perditempo, i logotecnocrati annoiati.
Mancavano quattro giorni alla primavera del 1987 , e nevicava. Salvatore Toma – uno dei più grandi poeti che questa terra abbia generato – moriva in un ospedale di Finibusterrae, a trentasei anni. Aveva scritto. “ hai giocato sincero/ perciò ci sei riuscito/ come quando mio fratello dice/ lo sapevo perché me lo sentivo! ( e bocciava tranquillamente/ il pallino)”.
Che sia tutta qui, in fondo, la poesia? In un bocciare con il cuore di panna e una mano di roccia il pallino del senso di vivere che in altro modo non si riesce a colpire, a carpire?
Forse è solo questo o forse è tutto il resto che si sottrae ad ogni dicibilità, ogni definizione. Chissà.
Ma accade spesso che ritorni la domanda: a cosa serve la poesia.
La prima risposta che viene è questa: a niente. Perché la poesia non è pane e non è acqua, non è la villa al mare, non è un suv, l’attico, il conto in banca, la barca; non è nulla su cui si possa investire, da cui si possa guadagnare. La poesia è una cosa inutile com’ è inutile un notturno di Chopin, una figura di Caravaggio, una pietà di Michelangelo. La poesia dice la bellezza. Ma la bellezza non è potere, non ha potere.
Allora la poesia non è altro che un gioco. Quello di una bambina che gioca con le bambole: bambole di pezza, bambole che si muovono, bambole che si amano. Quello di un bambino che gioca col trenino, con le spade di latta, con la fionda senza pietra. Quello di un uomo che gioca con la vita. La bambina vede la bambola così come le appare. Il bambino vede il suo giocattolo così come gli appare. Anche l’uomo vede i suoi giorni così come gli appaiono. Poi a un certo punto la bambina si domanda perché la bambola non parla; il bambino vuole capire com’è fatto il suo giocattolo, e l’uomo vuole scoprire il gioco dei suoi giorni, il gioco delle storie che cominciano e si spezzano. E’ a quel punto che comincia la poesia. Quando si accende una domanda. Quando si vuole capire che cosa ci sia dentro le cose a monte e a valle dei nostri giorni, del tempo che ci è stato prestato. Quando si vuole scrutare il fondo per scoprire quali meraviglie e quali misteri nasconde, quando si vuole andare al di là dell’apparenza fino a giungere all’essenza e al lievito della sostanza. La poesia comincia nel punto in cui le parole che di solito pronunciamo si rivelano banali o comunque inadeguate, quando non riescono ad esprimere il nostro rapporto con gli esseri e le cose, con le esperienze che attraversano la vita, con le esistenze con cui ci confrontiamo, di cui abbiamo bisogno di stringere il senso, di comprendere la trama, di svelare l’intreccio.
Ma la prima esperienza, la prima esistenza con cui ci confrontiamo, di cui vogliamo capire il senso, la trama, l’intreccio, è la nostra stessa vita: piccola storia tra tante altre piccole storie. Allora la poesia non serve ad altro che a comprendere se stesso e gli altri che ci sono intorno, quelli che sono venuti prima e forse anche quelli che verranno dopo, che sono un po’ diversi da noi, che un po’ ci rassomigliano. Ecco: a questo solo serve la poesia: a guardare dentro le cose, nell’esistenza delle creature. Per quanto dura. Poi la bambina torna a giocare con le sue bambole. Il bambino con il suo trenino ( si usano ancora i trenini? No? Come no? Ridate il trenino ai bambini). L’uomo ritorna al gioco con i suoi giorni: un gioco a volte bello, a volte brutto, certe altre volte un po’ noioso. A questo soltanto serve la poesia. A poco, in fondo. Però è anche vero che, quel poco, con la barca, il suv, il conto in banca, non lo si può fare. Non lo si può fare neanche con il pane e con l’acqua. Per quel poco servono necessariamente le parole, che hanno la consistenza di un fiato, di un vapore, ma che durano di più – tanto di più – di qualsiasi altra cosa. Anche dell’amore.
Antonio Errico
Benveuto Antonio. Grazie di essere fra noi. Avere uno scrittore come te nel nostro giornale è un onore vero. Fernando