Omicidio Noemi: ‘The show must go on’. La spettacolarizzazione del dolore, quando si è vittime due volte
È successo di nuovo, è successo ancora una volta. Nemmeno il tempo di apprendere dell’omicidio della povera Noemi per mano del suo fidanzato 17enne ed ecco che subito telecamere, fotocamere, smartphone, occhi curiosi di migliaia e migliaia di persone, si sono scatenati sull’accaduto, facendo fin da subito correre la notizia sul web e farla diventare virale. In piena epoca social, poi, nemmeno il dolore ed il silenzio viene rispettato e tutti si sentono in grado di ‘postare’ la loro opinione e di esprimere giudizi senza conoscere i fatti. E intanto c’è chi piange per una tragedia che, oltre ad aver stimolato milioni di coscienze in tutto il Paese, sta facendo parlare di sé in tutta Italia, ma come al solito nel modo peggiore possibile, attraverso quello che ormai è diventato un fenomeno di massa: la spettacolarizzazione del dramma, affiancata da quel ‘turismo dell’orrore’ che ormai è pratica tristemente diffusa.
In tv, sul web, sui social si creano i mostri, si stabiliscono vittime e carnefici, ancor prima che questo venga fatto da chi di dovere e da chi è realmente preposto a farlo. Le telecamere vanno ad indagare sui diverbi tra le famiglie, riprendono in diretta una famiglia che apprende l’orrendo gesto compiuto dal figlio e pongono l’accento su quello che fa audience, anche se crudo, anche se turba le sensibilità, lasciando sullo sfondo la vera vittima di tutta la vicenda. Nel caso della 16enne di Specchia, purtroppo, si ripropongono tutti gli ingredienti della cronaca nera che diventa rosa, dello spettacolo che deve andare avanti, nonostante ci sia una vittima, nonostante ci siano persone che, molto probabilmente, vivranno il resto dei loro giorni piangendo la cara scomparsa o uccisa. E così, via alle carovane di auto che si dirigono sul luogo del delitto per immortalarlo, per andare a vedere di persona quello che succede, per poter dire: “io c’ero”. Via ai commenti di vario tipo e di varia natura sul ragazzo, via alle folle oceaniche fuori da un commissariato (o una caserma) per andare a sputare in faccia tutta la rabbia e tutto l’odio, come se questo possa in qualche modo rendere giustizia alla vittima.
Rispetto alle vicende di Avetrana, Cogne o Garlasco, per fortuna in un certo senso, questo caso non avrà la stessa risonanza mediatica prolungata nel tempo perché c’è già un colpevole ed il “giallo” non appassionerà milioni di famiglie incollate alle televisioni o milioni di utenti che navigano sul web. Non ci sarà il mistero di capire fino all’ultimo chi è il carnefice e andare a sputargli in faccia tutta la propria rabbia. Tutto questo si è già concentrato nella giornata di ieri e continuerà nei prossimi giorni con la triste realtà di un’Italia che si unisce solo quando deve puntare il dito contro qualcuno e deve trovarsi tutta intera sotto l’ideale tetto del “giusto o sbagliato”. La giustizia qui non conta, non contano nemmeno le istituzioni, qui si parla di umanità e finché i riflettori saranno accesi, tutti si sentiranno in grado di parlare, di condannare e giudicare senza andare in fondo ad un problema e cercare di capirne cause e radici. E poi, c’è chi crede di poter linciare il “figlio maledetto”, chi va a visitare il luogo del delitto, ormai denominato “teatro degli orrori” e chi, solo per fare audience, specula sul dolore della povera gente. Le luci dei riflettori, però, un giorno si spegneranno e in questa vicenda, come al solito, avremo perso tutti.