Questione Xylella: intervista al dottor Emanuele Gabrieli
Il problema Xylella necessita, laddove richiesto, un chiarimento per la complessità e l’importanza del problema. Molte volte, a causa della necessità di sintesi, l’edizione cartacea, presenta alcuni limiti. La mancanza di spazio fra questi. Nell’ultima edizione di Corte Grande, in occasione della Sagra de la Volia Cazzata, si è verificato che l’intervista fatta al dottor Emanuele Gabrieli non sarebbe stata sufficientemente esplicitata a causa della complessità del problema. Perciò, l’agronomo ha chiesto di ampliare risposte allo scopo di chiarire alcuni concetti. Cosa che facciamo con piacere.
Il primo tecnico che abbiamo intervistato è l’Agronomo Emanuele Gabrieli, di Calimera, fortemente convinto che le antiche pratiche di cura del territorio avrebbero protetto gli ulivi e continuerebbero a preservarli, se ben attuate, dagli attacchi di questi batteri. “Una malattia”, ricorda Gabrieli, “con sintomi simili a quelli tipici della Xylella, è già stata segnalata dal famoso studioso martanese- Cosimo Moschettini- alla fine dell’800, che denominò questa patologia “brusca”, proprio per le caratteristiche macchie brune che avevano le foglie di olivo. Questa malattia, dopo alcuni decenni e dopo aver causato il disseccamento di alcuni oliveti nella zona della Grecìa Salentina, è scomparsa senza lasciare apparente traccia”. Questo episodio conferma, ancora di più, che i nostri olivi secolari hanno superato, nel corso degli anni, tante avversità, sia climatiche (siccità o eccessi piovosi, ecc…) che patologiche. Qualche esemplare sarà anche seccato ma molti sono sopravvissuti per arrivare poi sino ai nostri giorni. In natura, come sempre, gli individui più forti sopravvivono e continuano la specie, cosa che bene conoscono i nostri agricoltori che sceglievano per gli innesti le piante più vigorose e produttive. Forse, la “Xylella c’è sempre stata”, o comunque patologie simili, dichiara Gabrieli, “solo che gli anticorpi presenti nel terreno circostante proteggevano l’albero. Dopo l’utilizzo indiscriminato di veleni, soprattutto diserbanti, abbiamo fatto morire molti dei microorganismi che il terreno conteneva e ci troviamo nella situazione attuale”.
D. Dottor Gabrieli, allora, se su una pianta è presente la xilella, la pianta è morta?
R. No, non è detto. La tecnologia oggi ci consente una diagnosi precoce della malattia così si può intervenire per tempo tagliando le parti malate prima che l’infezione avanzi nella pianta e perseguendo chiaramente, nel contempo, un cambio di gestione agronomica del terreno cercando di raggiungere l’equilibrio di scambio tra pianta e terreno che possa consentire alla pianta di attivare al meglio le proprie difese immunitarie.
D. Secondo lei come avremmo potuto evitare l’attuale situazione?
R. Applicando le buone pratiche di una volta, riviste ed aggiornate dalle odierne conoscenze. Una aratura non profonda per sovesci, il trattamento saltuario alla pianta con rame e calce e zolfo al terreno. Più altri preparati che oggi la tecnologia ci mette a disposizione. Purtroppo si è dato per scontato che la stessa pianta fosse resistentissima di suo a prescindere da come viene gestita agronomicamente, ciò si è rivelato non vero come tutti possiamo vedere. La ridotta attenzione alle cure colturali, causate anche dalla bassa redditività del prodotto, hanno spinto al graduale abbandono o a una superficiale attenzione verso la cura degli alberi. Distruggendo il terreno e soprattutto i suoi poi preziosi microorganismi con l’irrorazione spesso incontrollata e massiccia di “presidi sanitari”. Perciò oggi le condizioni dell’agroecosistema non permettono più la normale difesa naturale delle piante. Non c’è da meravigliarsi.
D. Nella situazione attuale quale metodi bisognerebbe mettere in pratica per circoscrivere il fenomeno?
R. A meno che non sia chiaramente e decisamente perduta e quindi distruggerla bisogna intervenire sulla chioma e sul terreno. Essendo un arbusto sostanzialmente selvatico ricrescerà spontaneamente , con il tempo spunterà qualche pollone.
D. Secondo lei la sostituzione degli alberi abbattuti con la specie “Leccino” più resistente al batterio, può risolvere il problema?
R. Quella non è una pianta autoctona, a lungo andare potrebbe rivelarsi una presenza facilmente attaccabile da numerose patologie proprio perché non nostra. Non abituata, cioè al nostro clima e a i nostri terreni.
Fernando Durante
Condividi :